Alla scoperta della “Caf-fisica”

Buongiorno a tutti voi che seguite le mie avventure,

ormai è quasi inverno e da me ha già nevicato. In questo periodo non c’è niente di più soddisfacente che restare in casa e godersi il caldo del camino scoppiettante… meglio ancora se in compagnia di una vecchia conoscenza.

Vorrei raccontarvi proprio di quello di cui abbiamo parlato ieri, il Professor Dorito Orangie Rocwood, per gli amici intimi Rocky, un mio caro amico e compagno di innumerevoli avventure a sfondo archeologico. È uno dei massimi esperti di civiltà feline mesoamericane ai tempi in cui fioriva la civiltà Maya, nonché profondo conoscitore di quelle zone. 

È venuto a sottoporre alla mia attenzione un reperto portato alla luce nel suo ultimo scavo, non lontano da El Caracol, il quale apparentemente sembra un cubetto di terracotta, ma entrambi siamo convinti che per le raffigurazioni che vi sono state dipinte possa rappresentare una qualche forma di apparecchiatura scientifica. Comunque, non divagherò perdendomi nei dettagli delle nostre elucubrazioni, c’è tanta strada ancora da percorrere per arrivare alla decifrazione di quello che al momento abbiamo ribattezzato come l’”ArtùRockynismo” (il nome dovrebbe essere una specie di fusione dei nostri nomi e della parola “meccanismo”).

Le nostre riflessioni sono state aiutate dal tiepido crepitio del caminetto, accompagnate da una corroborante bevanda calda. Abbiamo tralasciato il solito tè per qualcosa di più tonificante: un ottimo caffè (accompagnato da sfiziosi biscottini al tonnetto).

Non ho potuto esimermi da una digressione sulla creazione del più iconico strumento per la sua preparazione, la moka, e sui principi fisici ad essa sottesi, che vorrei condividere con voi.

Innanzitutto, Rocky mi ha chiarito l’origine del nome, che deriva da una città dello Yemen, Mokha per l’appunto, che si dice essere stata uno dei primi e dei più rinomati centri di produzione del caffè.

L’ideatore di questo marchingegno, che avrebbe portato il “caffè come quello del bar” nelle case degli italiani, fu Alfonso Bialetti. L’anno in cui questo portento vide la luce fu il 1933. 

Si racconta che la lampadina gli si accese dopo aver osservato la moglie fare il bucato con la lessiveuse, una sorta di antenata della lavatrice. Essa è costituita essenzialmente da un recipiente metallico ampio, dalla foggia di un pentolone, avente un tubo al centro che termina con disco piatto forato lungo la circonferenza. 

La parte che appoggia sul fuoco, o comunque sulla fonte di calore, è costituita da un doppio fondo, la cui parte superiore è forata. L’acqua, con cui è stata riempita insieme ai panni, sotto l’azione del calore, viene portata ad ebollizione stato in cui per l’azione della spinta del vapore prodotto e dei moti convettivi che spingono la parte più calda, quella sul fondo appunto, a risalire. Essendo la parete superiore del doppio fondo bucata, l’acqua entra all’interno e risale lungo il tubo per poi ricadere, attraverso la parte terminale forata, sul bucato, ricoprendolo di acqua calda e detersivo “la “liscivia”).

Cerco di rappresentarvi sotto un piccolo schema di come è fatta la lessiveuse.

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